Possono essere gli smart siti luoghi d’identità dell’uomo? Ormai i variegati approcci di sostenibilità, a volte contradditori, risultano insoddisfacenti nel governare la realtà costruita la quale evidenzia le profonde ferite lasciate dai comportamenti non virtuosi delle passate generazioni. 

 

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Emergenze

Piattaforme petrolifere, cancro del mare

Piattaforme petrolifere, cancro del mare

di Simona Magioncalda

Navigando in internet è possibile tracciare pochi episodi in merito agli incidenti occorsi a piattaforme petrolifere; la cronaca internazionale si occupa principalmente di registrare gli avvenimenti che abbiano causato ingenti perdite umane e consistenti sversamenti in mare di greggio. Potrebbe quindi essere sufficiente il basso numero di gravi incidenti registrati a fronte di oltre un migliaio di piattaforme attive, per considerare il metodo di estrazione offshore sicuro ed incentivabile. Questo poteva essere valido fino all’aprile di quest’anno quando, a causa di un’esplosione occorsa alla piattaforma Deepwater Horizon, si creò una copiosa fuoriuscita di greggio che ha compromesso l’ecosistema marino ed ha inquinato le coste della Louisiana, del Mississippi, dell’Alabama e della Florida.
La realizzazione della Deepwater Horizon (piattaforma capace di scavare pozzi molto profondi) rientra infatti nella strategia di ricerca e di sfruttamento di nuovi giacimenti petroliferi offshore.
La Deepwater Horizon era un piattaforma semisommergibile di perforazione di proprietà della Transocean, una società di servizi per il mondo petrolifero (con i principali uffici in Svizzera, negli Usa ed alle Isole Cayman), sotto contratto con la compagnia inglese British Petroleum.
La costruzione della piattaforma iniziò nel 1998 e, costata 560 milioni di dollari, fu completata nel 2001 da una industria Sud Coreana. Le principali perforazioni eseguite dalla Deepwater Horizon avvennero nei campi petroliferi Atlantis (it. Atlantide) e Thunder Horse. Nel settembre 2009 terminò la perforazione di un pozzo nel campo Tiber, realizzando il più profondo pozzo di gas e petrolio mai perforato; la profondità misurata sulla verticale del pozzo fu di 10680 metri e la distanza tra la linea di galleggiamento della piattaforma ed il fondale fu di 1259 metri.
Questi illustri precedenti, di una piattaforma capace di operare su fondali profondi fino a 3000 metri, stridono se confrontati con le condizioni in cui operava prima del grave incidente nel Golfo del Messico. Ma una diversa lettura dei fatti può essere effettuata se l’incidente si contestualizza con una serie di incidenti (incendi e sversamenti in mare) registrati dalla US Coast Guard tra il 2000 ed il 2010 oltre al manifestarsi di chiari segnali di allarme nelle ore antecedenti l’esplosione.
Il 20 aprile 2010, mentre la trivella della Deepwater Horizon stava completando il Pozzo Macondo ad oltre 1500 mt di profondità al largo della Louisiana, un'esplosione sulla piattaforma fece innescare un violentissimo incendio; il bilancio fu di 11 persone scomparse e 17 lavoratori feriti.
In seguito all'incendio la flotta della BP tentò invano di spegnere le fiamme, oltre a recuperare i superstiti; due giorni dopo la piattaforma si rovesciò, affondando e depositandosi sul fondale.
Il malfunzionamento delle valvole di sicurezza presenti all'imboccatura del pozzo sul fondale marino e la formazione di falle nella tubazione causò il versamento massivo ed incontrollato del petrolio che si protrasse per 106 giorni, fino al 4 agosto 2010, con milioni di barili di petrolio dispersi in una vasta area del fondale e, in sospensione nelle acque di fronte a Luisiana, Mississippi, Alabama e Florida. Impressionanti sono le immagini riprese dal satellite e che dimostrano quanto ampia sia stata l’area marina e costiera interessata dall’inquinamento. I primi interventi hanno riguardato lo spargimento di solventi per diluire il petrolio, poi l’innesco di incendi controllati per bruciare il greggio; successivamente, con l’ausilio di robot, la BP ha prima individuato due falle e successivamente cercato di interrompere la fuoriuscita in mare azionando una valvola di sicurezza, ma le pessime condizioni del mare hanno intralciato le operazioni. Infatti, un altro dato da considerare è la peculiarità che il Golfo del Messico è stagionalmente interessato da tempeste tropicali ed uragani anche di forte intensità (es. uragano Katrina). L’incidente ha inoltre messo in luce una grave criticità: le prime operazioni per la chiusura delle falle sono state ostacolate anche dalle difficoltà insite in un intervento subacqueo da effettuare a 1500 mt. di profondità; rimangono delle forti perplessità su come avrebbero potuto intervenire qualora l’incidente fosse avvenuto con il pozzo situato ad una profondità maggiore. La stessa BP si è dichiarata impreparata ad una situazione così particolare ed imprevedibile, ma è stata smentita dalla pubblicazione di un esperimento datato 2000, il "DeepSpill Joint Industry Project", effettuato al largo delle coste norvegesi per valutare gli effetti di una fuoriuscita di petrolio in acque profonde. Dopo circa un mese dal disastro si tentò di applicare, senza successo, una gigantesca cupola in cemento ed acciaio per chiudere le perdite e recuperare il greggio. Fu poi installato un imbuto rovesciato per intercettare il combustibile e venne presa la decisione di testare un secondo tappo mentre si procedeva con la trivellazione di due pozzi sussidiari di emergenza per la chiusura della falla con il versamento di fango e cemento. La fuoriuscita di greggio pare ormai eliminata dai primi di agosto del 2010, ma le criticità e i danni sono lontani dall’essere risolti.
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I danni agli ecosistemi ed agli ambienti marini e costieri sono incalcolabili, il greggio ed i solventi utilizzati inquinano ed inquineranno per un tempo non definito l’ambiente, oltre ad entrare nella catena alimentare di tutti gli organismi, uomo compreso. Le economie legate alla pesca nel mare del Golfo ed al turismo anche di aree ad alta protezione ambientale hanno subito un danno irreparabile. Per quanto riguarda l’Europa anche nel mare del nord e nel mediterraneo non mancano gli incidenti e i versamenti di greggio; nonostante nei bacini del mediterraneo/mar nero vi siano circa 140 piattaforme di estrazione sono tuttavia sufficienti ad innalzare la percentuale di catrame presente nell’acqua in quantità decine di volte maggiori che nel Golfo del Messico (dove sono più di 2000 gli impianti attivi). Nonostante le immagini del disastro siano ancora fresche nella memoria di ognuno ed un altro incidente abbia interessato ai primi di settembre una piattaforma di estrazione del greggio nel Golfo del Messico pare si stiano affievolendo le voci di chi voleva regolamentare e rendere più sicure le estrazioni di greggio su piattaforme offshore. E, in mancanza di una compatta presa di posizione a livello internazionale per scongiurare catastrofi di portata sempre maggiore, l’industria estrattiva sta nel frattempo valutando lo sfruttamento di oceani con problematiche maggiori del Golfo del Messico. E’ infatti recente la notizia delle esplorazioni di una Società inglese, la Cairn Energy, al largo della Groenlandia nel Mar Artico.