Possono essere gli smart siti luoghi d’identità dell’uomo? Ormai i variegati approcci di sostenibilità, a volte contradditori, risultano insoddisfacenti nel governare la realtà costruita la quale evidenzia le profonde ferite lasciate dai comportamenti non virtuosi delle passate generazioni. 

 

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Recensione & pillole

Centralità del progetto

Centralità del progetto

di Giorgio Cirilli
Rinviando ad analisi successiva l’argomento delle numerose riforme degli studi in Architettura apriamo invece al tema della didattica “laboratoriale”. Superando le antiche prassi delle lezioni dalla “cattedra” come tenute dai vecchi baroni ormai scomparsi, da alcuni anni il “core” dell’insegnamento si basa sullo svolgimento del “laboratorio di progettazione”. Semplificando i Laboratori sono in numero di quattro nell’arco del quinquennio di studio, in genere posti nel primo quadriennio; nel 5°anno c’è il Laboratorio di sintesi finale (o la tesi di laurea che, se progettuale, completa il ciclo). Andiamo ad analizzare come funziona il Laboratorio che si ispira nella terminologia adottata alla pratica dl lavoro d’atelier, invero un po’ datata! Il corso, della durata annuale di 120 ore, le concentra, mediamente 6, in una sola giornata. In qualche caso è stata introdotta la semestralizzazione che si concentra nel 2° semestre dell’ A.A. Il numero degli studenti ammessi per corso è al massimo di 50 a cui si chiede una frequenza obbligatoria per almeno il 75% delle ore svolte, altrimenti non è possibile l’ammissione all’esame.
Quindi l’apprendimento, nel corso annuale, si concentra in circa 20 giornate esclusi … imprevisti. Il modo in cui sono articolate le 6 ore è liberamente stabilito dal Docente titolare che può modulare tradizionali lezioni ex cathedra con lavori collettivi in aula per piccoli gruppi svolti sotto il suo controllo o di suoi eventuali collaboratori. I gruppi periodicamente si confrontano e alla fine d’anno l’esame può assumere la forma del workshop. All’inizio tali corsi laboratoriali erano “agganciati” con moduli specialistici integrativi, di qualche decina di ore, per altre specificità (urbanistiche, tecnologiche, ecc); sono stati sempre molto poco funzionali e sostanzialmente abbandonati. A varie riprese si è cercato di avviare una continuità funzionale tra i vari anni cercando di fissare dei contenuti minimi dell’apprendimento conseguito, con una successione, nei 4 anni, di livelli “in progress” di complessità dei progetti da sviluppare. Il monte ore di lezione dello studente, durante l’A.A., assomma a circa 900 per cui si può affermare che è sempre “sotto pressione”. In genere per ogni anno sono previsti 8 esami. Stante questo quadro la richiesta da parte del mondo della professione di una più marcata formazione professionalizzante appare problematica.
Il contatto diretto docente/allievo è assai ridotto in quasi tutti gli anni di corso, è di tutta evidenza che le elaborazioni progettuali al primo anno siano meno complesse di quanto non accada negli anni successivi ma l’impianto didattico è sostanzialmente identico, non evolve, chiuso in una serie di compartimenti stagni. Il “progetto” nel senso più compiuto del termine, fino allo sviluppo esecutivo, non è al centro della scena e difficilmente documenta la capacità a progettare compiutamente da parte dell’allievo.
Lo studente dedica mediamente circa il 10% del suo tempo complessivo alla “progettazione” (90 ore su 900) ben difficilmente potrà prepararsi per uno sviluppo completo del “progetto” che salvo “effetti speciali” il più delle volte appare di livello “metaprogettuale” in quanto non è in grado di controllare il processo. Questo vale per tutti gli anni e l’impegno ed il contributo, anche volenteroso dei Docenti, non produce effetti evidenti. Quando, una volta laureati, cominciano a frequentare uno studio professionale le difficoltà sono molte, di qui le critiche dei professionisti sulla scadente preparazione dei laureati. Certo nell’ordinamento c’è anche la mancanza del tirocinio; forse la sua introduzione non sarebbe sufficiente a modificare il quadro. Una ulteriore considerazione potrebbe riguardare la sequenza del 3+2 introdotta dall’ultima riforma, adottata da molte sedi universitarie. La possibilità di acquisire nel primo triennio competenze che una volta meglio definite come “diploma” sono state poi nobilitate come “laurea di 1°livello”(Architetto junior) con cui si sarebbe potuti entrare nel “mondo del lavoro” non ha certo funzionato. Una preparazione più tecnica, più operativa, di cantiere, nel triennio di fatto poi on esiste, anche perché forse non c’è una docenza attrezzata a tale funzione.
La quasi obbligata scelta di continuare nel +2, fatta poi dai più, non gli permetterà quella maturazione alla progettazione. Ormai solo assillati dall’imperativo “uscire” dopo, mediamente, 8 anni di facoltà universitaria!
Toccare, sfiorare la superficie di un muro, di una pietra da rivestimento, di un marmo sono esperienze tattili che emozionano, quando mai capita? eppure sono anche queste le sicurezze per un Architetto.
La facoltà di Ingegneria ha storicamente risolto il problema. Ad un biennio propedeutico con sbarramento seguiva il triennio di specializzazione. Non c’è mai stata necessità di test d’ammissione o di numero programmato. Dalla sua fondazione la facoltà di Architettura che dovrebbe avere un po’ di quel DNA d’Ingegneria non ha mai avuto la determinazione per una tale scelta. Se ne vedono le conseguenze. Non può essere giustificazione l’assurda politica: “più studenti più finanziamento dal Ministero”. Se ne vedono le conseguenze.
Serve uno sforzo comune per immaginare una possibile nuova articolazione che riporti la Progettazione al centro della didattica per la formazione dell’Architetto.